Intervista ai Giullari digitali per il singolo “La fiera dei luoghi comuni”

Eccoci con i Giullari digitali. “La fiera dei luoghi comuni” fa riflettere su quanto spesso usiamo frasi fatte nella vita quotidiana. Com’è stato il processo creativo per scrivere un brano che tratta un tema tanto attuale?

Il processo creativo è stato un mix di osservazione e gioco. Ci siamo accorti di quante frasi fatte usiamo ogni giorno senza nemmeno pensarci, e abbiamo deciso di prenderle e trasformarle in musica. È stato quasi un puzzle: scegliere i luoghi comuni più iconici, immaginarli come personaggi di una fiera, e costruire intorno a loro un testo che fosse ironico ma anche riflessivo. Il risultato è un brano che gioca con queste frasi, ma che le guarda anche con una certa nostalgia, perché in fondo fanno parte del nostro vissuto collettivo.

Nel brano c’è una forte componente ironica. Quanto pensate che l’ironia possa essere un veicolo efficace per comunicare messaggi importanti, in particolare oggi?

L’ironia è un veicolo incredibile. È come una porta aperta: ti fa entrare in un discorso con leggerezza, ma una volta dentro puoi scoprire anche contenuti più profondi. Oggi, con il sovraccarico di informazioni e la rapidità con cui si consuma tutto, pensiamo che l’ironia sia uno dei pochi strumenti che cattura l’attenzione senza risultare invadente o predicatoria. È una forma di dialogo, un modo per dire: “Ok, ridiamo, ma pensiamoci un attimo.”

Il sound del singolo è molto fresco e accattivante. Come siete riusciti a unire il ritmo e l’energia a un testo che, pur trattando temi profondi, ha un tono di critica sottile?

Abbiamo sempre in mente un equilibrio: da un lato il testo deve avere qualcosa da dire, dall’altro la musica deve far muovere. Per “La fiera dei luoghi comuni” abbiamo lavorato molto sul contrasto: un ritmo che richiama il divertimento di una fiera e un testo che gioca con le parole senza appesantire. La critica c’è, ma non è mai urlata; preferiamo lasciare che sia l’ascoltatore a coglierla, magari mentre si ritrova a canticchiare il ritornello.

Avete detto che il brano esplora come le parole, seppur famose, spesso risultano vuote di significato. Quanto pensate che questo tipo di riflessione possa stimolare un cambiamento nel nostro modo di comunicare?

Non pretendiamo di cambiare il mondo con una canzone, ma crediamo che la musica possa essere uno specchio. Riflettere su quante volte usiamo frasi fatte può farci sorridere, ma anche portarci a pensare al significato delle parole che scegliamo. Magari, la prossima volta, invece di un “Non ci sono più le mezze stagioni” qualcuno proverà a dire qualcosa di più personale. La musica può accendere una miccia, poi sta a ciascuno di noi alimentare la fiamma.

C’è un riferimento a un momento o a una situazione che vi ha ispirato direttamente per scrivere “La fiera dei luoghi comuni”?

Assolutamente sì! È nato tutto da una chiacchierata tra amici, quelle in cui ogni tanto qualcuno tira fuori una frase fatta per riempire un silenzio o per chiudere un discorso. Ci siamo messi a ridere e a contarle: in un’ora ne avevamo raccolte una ventina. Da lì l’idea di trasformarle in una canzone, perché ci sembrava incredibile quanto fossero universali e radicate. È stato un momento di pura ispirazione, a dimostrazione che anche le cose più semplici possono diventare arte, se guardate con gli occhi giusti.

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